ORGOGLIO SAVELLESE

Sono reduce dall’ultimo week end trascorso in quel di Savelli.

Per chi vive fuori dal paese natio, ci sia da fare i conti con distanze quasi proibitive o, come nel mio caso, di lontananze facilmente colmabili, il ritorno alle origini riveste sempre un fascino particolare che si accompagna ad un desiderio, mai sopito, che poggia su percezioni intime per quanto indiscutibili.

Sotto la spinta di un richiamo di luoghi e di odori non facilmente narrabile, l’affacciarsi alla Savelli di oggi rende tuttavia necessario il ricorso, pressoché obbligato, ad una serie di interrogativi non del tutto concilianti con le emozioni interiori che le tracce della propria memoria fanno trapelare.

Dovessi trovare un modo di raccontarlo, il tutto si potrebbe semplicemente racchiudere nelle sensazioni degli attimi iniziali in cui si approda a Savelli, quegli istanti in cui la voglia sfrenata di accostarsi alle origini, si trasforma, ben presto, in un sentimento nostalgico che esprime la tristezza, a dir poco desolante, che il centro abitato “regala” fin da quando se ne percorrono i primi metri.

Se questa condizione coincide, inevitabilmente, con l’inesorabile destino che riguarda gran parte dei centri di piccole dimensioni, specie di quelli montani, in cui lo spopolamento odierno è la conseguenza di decenni di emigrazione sconfinata, va anche detto che Savelli rappresenta un unicum negativo in cui un oggettivo stato di malessere altro non è se non una definizione plastica che va assurgendo i tratti tipici della rassegnazione.

Una condizione di agonia che impone persino di abbandonare le classiche domande su “quel che poteva essere e non è stato”, su cause di problematiche profonde che si radicano a cavallo degli anni ‘50 e ‘70 del secolo scorso, ma che, di contro, rende essenziale il ricorso a seppur minimi e residui stimoli per cercare di “salvare il salvabile”.

Ci sarebbe, in altri termini, da garantire un briciolo di identità perché costruirla è ormai impossibile e la mancanza atavica di spirito identitario può considerarsi fattore primario dell’attuale stato emergenziale.

Ci sarebbe da raccogliersi intorno ad ipotesi culturali che, senza avventurarsi in voli pindarici, riescano a far emergere almeno parzialmente un potenziale finora quasi totalmente inespresso.

Ci sarebbe da ispirarsi a non più rimandabili sentimenti di solidarietà e condivisione che creino pace sociale e diffondano comuni sentimenti costruttivi.

Ci sarebbe da prodigarsi per gestire almeno l’ordinario.

Ci sarebbe da sedersi tutti assieme intorno ad un tavolo, discutere di idee e contenuti, abbandonare miopi personalismi e veti incrociati, ci sarebbe, in poche parole, da costruire un briciolo di comunità partendo da quel poco che di essa si può recuperare per non farla scomparire del tutto e scongiurarne, finanche, l’estinzione.

Per fare ciò, occorrerà mettere da parte egoismi latenti e cercare di costruire un qualcosa che vada al di là della coltivazione di orticelli che finiranno, anch’essi, spazzati dall’implacabile avanzare di una realtà che, di qui a poco, non consentirà a nessuno di “soddisfare” qualsivoglia interesse di carattere personale.

Un ruolo strategico, in questa direzione, spetterà all’Amministrazione locale, dalla quale mi sarei atteso fin qui una maggiore capacità nello stemperare un clima che continua invece ad essere da “campagna elettorale” ed in cui i guelfi sono da ritenersi cittadini di serie A ed i ghibellini cittadini di serie cadetta.

In questo ideale assembramento di forze chiamate a raccolta, che deve saper accogliere il contributo dei nostri savellesi emigrati quali risorse che propongono soluzioni da prendere realmente in considerazione, agli amministratori locali va assegnato, infatti, un ruolo di coordinamento delle attività dei più volenterosi, siano essi singoli e/o associazioni organizzate.

Di contenuti da esplorare se ne potrebbero individuare a iosa, spaziando nel campo di settori eterogenei e prendendo ad esempio la realtà di decine di paesi, demograficamente in ineluttabile calo, ma che riescono a mantenere una fiammella di vitalità anche alle nostre latitudini.

Si potrebbe partire dalla cultura, appunto, per estendersi nel campo della prevenzione e della protezione civile (quella reale e non su carta), ci sarebbe poi da discutere di salvaguardia del territorio, di recupero urbanistico, del mantenimento di un minimo di infrastrutture, di decoro urbano, di processi sociali e di progetti che puntino a creare sviluppo o al massimo assistenza e non assistenzialismo.

In altri termini, ci sarebbe da discutere e confrontarsi, seppur da alterne posizioni, avendo bene a mente che l’obiettivo finale deve necessariamente comportare il venir meno di logiche di parte a cui non vale più la pena restare ancorati.

Nella Savelli di oggi, in cui risulta già difficile trovare qualcuno per poter mettere in piedi la classica partita a carte al bar o farsi anche solo una chiacchierata, lo sforzo richiesto non è dei più semplici da affrontare.

Per i più impavidi si tratta, in ogni caso, di porsi una mission, difficile da raggiungere, ma che non può e non deve ritenersi, a priori, impossibile da conseguire.

Pena, un destino segnato il cui approssimarsi potrà essere molto più rapido e concreto di quello che si poteva anche solo immaginare qualche anno fa.

La situazione richiede quindi di essere affrontata con coraggio e convinzione in modo che, al di là di steccati mascherati da pseudo schieramenti, ci si possa spingere oltre antipatie personali ed orientare così lo sguardo ad un “senso comune” che possa considerarsi finalmente tale.

Urge, in sintesi, mettere da parte maldestre velleità di singoli in nome di percorsi costruttivi da sostenere congiuntamente, nel rispetto delle possibilità e competenze di ciascuno o almeno di chi vorrà esserci.

La posta in palio è elevatissima, le alternative, di contro, ridotte, oramai, quasi al lumicino…