ANTONIO TALLARICO: IL PAESE, UNA PARTE DI NOI STESSI

Il nuovo appuntamento con “Savelli si racconta” ha come protagonista di una chiacchierata, virtuale per quanto appassionante, Antonio Tallarico, docente di lingue (francese), di origine savellese, che svolge attualmente la propria professione presso l’Istituto Comprensivo “Bobbio-Novaro” di Torino.

Trasferitosi in terra sabauda nel 2008, dopo aver completato i propri studi universitari all’Università della Calabria, Antonio è senza alcun dubbio uno dei volti maggiormente rappresentativi dell’emigrazione più recente, quella che, negli ultimi anni, ha visto lasciare la propria terra le menti più eccelse di un contesto paesano di per sé già provato, soppiantando, di fatto, la classica diaspora, simbolicamente rappresentata dalla “valigia di cartone”.

Ma Antonio Tallarico è anche il principale fautore di numerose iniziative tese a recuperare il valore della savellesità, nel tentativo, ultimo, di preservarlo e rinvigorirlo per costruirci intorno un percorso di crescita condiviso e futuribile.

Il blog personale “Savelli2016”, le iniziative di “fare per il paese”, i ripetuti tentativi di farsi promotore di incontri e confronti aventi a sfondo Savelli, quel che è stato e quel che ci si prefigge possa eventualmente essere, sono solo alcune delle tante attività portate avanti.

Tanto che non appare affatto esagerato concludere che Antonio Tallarico è attualmente fra le figure nostrane più fervide, da un punto di vista strettamente culturale quanto di quelle che sono le sue idee di sviluppo per il “paese del futuro”.

La sua è quindi la storia, degna di raccontare, di un savellese che, maledettamente ed ostinatamente attaccato alle proprie origini, si impegna quotidianamente per sviluppare i contenuti ed i tratti di quel che può e deve quindi essere la Savelli “che sarà”.

Per chi, come me, con Antonio ha avuto modo di confrontarsi più volte su tutto quello che è il vivere del paese e le sue molteplici sfaccettature, l’occasione è ghiotta anzitutto per ringraziarlo delle quotidiane azioni messe in campo, molte delle quali insieme largamente condivise, ma anche per “catturare” eventuali progetti in cantiere.

IL RUGGITO: andiamo al sodo, Antonio. Parliamo un po’ di quel che è la tua attuale dimensione in terra piemontese. Chi è oggi Antonio e cosa vuole fare da grande?

ANTONIO: sono un docente e rappresentante sindacale. Lavoro in una scuola, di “Barriera di Milano”, periferia nord di Torino, uno spazio di grandi contaminazioni che ha abbracciato gran parte di quella migrazione giunta dall’Italia meridionale (moltissimi savellesi) e che ancora oggi continua ad accogliere uomini e donne provenienti da tutti i “sud” del mondo. Mi piace insegnare e spero di poter continuare farlo il più a lungo possibile.

IL RUGGITO: sei sempre stato spirito critico e libero; dovessi voltarti indietro, quale ritieni sia stato il ruolo che l’emigrazione ha svolto nel tuo percorso di crescita umano e professionale?

ANTONIO: da un punto di vista professionale, l’emigrazione ha svolto un ruolo importante, mi ha dato modo di confrontarmi, dapprima con il precariato, poi, all’improvviso, quando ho capito quale fosse la mia dimensione lavorativa ideale, ho avuto la fortuna di essere stabilizzato e di poter trovare continuità. Tuttavia, la partenza e il distacco mi hanno offerto la possibilità di mettere meglio a fuoco ciò che già ero, ciò che mi portavo dentro, come eredità del mondo precedente che non era e non è poca cosa.

IL RUGGITO: una delle facce più malinconiche dell’emigrazione è quella nostalgica della lontananza dai luoghi più cari. Come vivi questo rapporto nel quotidiano? Il passare del tempo aiuta a convivere con questa malinconia comunque sempre presente?

ANTONIO: diciamo che esistono due tipi di malinconia: quella rivolta al passato, a quello che è stato, e una invece che guarda a ciò (alla vita, al paese) che avrebbe potuto essere. Io propendo, per così dire, verso la seconda delle due. Ovviamente, lasciare il paese non è mai stato facile e non lo sarà mai, quella che si configura è sempre una frattura, una separazione più o meno definitiva che va gestita con attenzione. Questo l’ho imparato solo con il passare del tempo. Quel tempo che mi è servito anche per capire come esorcizzare il momento per me più doloroso: quello della ripartenza. Ad esempio, negli ultimi giorni di permanenza al paese, giro per le strade, vago da un punto all’altro dell’abitato per fare incetta di immagini, di impressioni che poi, in un modo o nell’altro, trasformo in un qualcosa (uno scritto, una riflessione) che mi aiuta a vivere meglio il distacco.

IL RUGGITO: molte sono le tue analisi sulla “savellesità” e su tutto ciò che questo valore può raccontare. Quali sono gli obiettivi di fondo di ogni tua ricerca e quale il fine ultimo di questo “ostinato” tentativo di recupero e valorizzazione delle origini?

ANTONIO: io vedo l’attaccamento al paese come una forma di resistenza attiva. Considero ad esempio ogni ritorno, ogni porta aperta, ogni atto creativo, ogni iniziativa sincera che abbia al centro Savelli come un dono. I paesi interni, come d’altronde le grandi periferie urbane, non se la passano bene. La questione che ci si pone davanti allora è: da che parte stare? Per me, la risposta è scontata: con il paese. Perché il “mio paese sono io” (rubo la frase al poeta Daniel Cundari) e senza di esso non sarei niente di ciò che sono. In altre parole, senza il paese, non avrei dentro quell’unicità di visioni e di sentire che quest’ultimo mi (ci) ha regalato che è merce rara nel mondo omologato in cui viviamo. Se mi chiedi allora quale sia il fine ultimo, ti dirò: contribuire a mantenere in vita il paese perché ciò significa mantenere in vita una parte di me stesso.

IL RUGGITO: in questo viaggio su Savelli e dintorni avrai avuto modo di imbatterti in sentimenti, nostalgie, speranze e valutazioni comunque contrastanti. Potessi racchiuderli, quali ritieni possano considerarsi quelli più rilevanti?

ANTONIO: spesso ci sentiamo dire che il paese è finito, morto, ecc…Però, malgrado ciò, si continua a scrivere (l’ultimo libro lo ha scritto un ragazzo come Damiano Iozzi), a fare ricerca, a produrre arte. E questa è la dimostrazione che Savelli, nonostante tutto, è vivo e vegeto, almeno nella sua essenza. Soltanto, forse dovremmo interrogarci su quale sia la sua forma attuale che non è più e non solo quella di un mondo chiuso che basta a sé stesso. Occorre invece pensare al paese come a qualcosa di plurale in cui convivono diverse anime che, a volte, purtroppo, fanno difficoltà a comunicare.

IL RUGGITO: so che hai modo di fare spesso ritorno al paese. Come lo trovi con il passare del tempo?

ANTONIO: indubbiamente, quando dico che il paese è vivo e vegeto, non voglio dire che viverci sia facile oppure che tutto vada per il meglio. Gli effetti dello spopolamento sono palesi. Da un punto di vista urbanistico, assistiamo ad una fase di grande degrado. Molti vicoli sono in una condizione di abbandono e diverse case sono pericolanti. Gli stessi interventi che avrebbero dovuto migliorare l’abitato, spesso non hanno fatto altro che degradarne la bellezza implicita. Gli spazi pubblici, biblioteche e musei, non sono fruibili (perché chiusi o invasi dalla muffa) e non producono cultura e aggregazione. Il rapporto con la montagna sembra essere stato reciso: molti sentieri e cammini stanno sparendo tra la vegetazione spontanea. Analogamente, stanno svanendo le tracce fisiche dell’operatività di chi ci ha preceduto. Si pensi, ad esempio, ai resti delle “segherie di Mezzocampo” o ai tanti muretti a secco la cui arte è diventata patrimonio dell’umanità. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo…

IL RUGGITO: quali sono invece le differenze fra la “tua” Savelli e quella che rivivi adesso quando vi fai ritorno?

ANTONIO: i numeri. Essendo diminuito il numero reale dei residenti, risulta più difficile creare socialità. Tuttavia, io ho sempre sostenuto che i problemi attuali vengano da lontano. La tanto decantata “età dell’oro” non è mai esistita ed anzi ci sono responsabilità storiche che non si possono cancellare.

 IL RUGGITO: quali ritieni siano invece i punti di debolezza ed i limiti del contesto paesano odierno?

ANTONIO: innanzitutto, esiste un problema di diritti negati, mobilità, sanità, istruzione. Si tratta di questioni che possono essere affrontate, solo in parte, da chi dirige un piccolo Comune o da chi opera al suo interno perché è lo Stato che deve occuparsi di tutto ciò. Un altro limite, e questo coinvolge chi amministra localmente, sta nell’incapacità di dare attenzione agli altri, di creare relazioni positive, di aprire il paese rendendolo accogliente e coinvolgendo quanti vogliono spendersi per la comunità. Io mi sono ritrovato molto spesso, negli ultimi anni, a discutere di paese in piazza, per le strade, prima ancora che sul web ed ho avuto modo di conoscere savellesi in gamba, pieni di idee e passioni, che mi hanno insegnato tanto. Onestamente, però, non mi è mai capitato di discutere di Savelli con i politici locali o gli aspiranti tali i quali, una volta eletti, è come se sparissero dalla circolazione. E questo è indicativo, perché chi fa politica non può chiudersi in un castello dorato e scegliere quando e con chi parlare. Come d’altronde chi gestisce la cosa pubblica (accadeva ieri, accade oggi) non può immaginare di trattare chi critica o la pensa diversamente come “un cane randagio a cui tagliare le corde vocali” (Caparezza docet).

IL RUGGITO: ritieni ci possano essere opportunità per invertire realmente la rotta? E se sì, quali le leve da innestare, a tuo avviso, ed in quali ambiti di azione?

ANTONIO: il fatto è che il mondo è già cambiato. C’è un’attenzione nuova verso i margini ed un’arte letteraria come quella di Arminio, Cognetti, Cundari è lì a segnalarcelo. Anche il lavoro è cambiato. Si va verso una progressiva dematerializzazione dello stesso e c’è sempre più gente (io compreso) che ha voglia di una maggiore mobilità.  Se ho un’abitazione al mare o in montagna e posso lavorare da casa, perché devo starmene in città, chiuso dentro un ufficio? Allo stesso modo, nei prossimi anni, molti dei lavori che oggi conosciamo non ci saranno più. A ciò, si aggiunge la questione climatica: carenza idrica e innalzamento delle temperature come trasformeranno le aree metropolitane e geografiche più a rischio? Ma in che condizioni sarà il paese fra qualche anno? Riuscirà a sopravvivere per poter accogliere questi cambiamenti potenziali? Riusciremo a cogliere le opportunità offerte dal PNRR? La risposta a queste domande non è semplice e non esistono formule magiche. Si possono fare dei tentativi, come cercare di occupare il maggior numero di ragazzi e ragazze che non vogliono partire. Fossi io il Sindaco del paese, cercherei, ad esempio, di stabilizzare due giovani educatori con il compito di creare socialità ed iniziative per gli anziani, ma non solo. Perché è inaccettabile che si possa vivere in un paese e sentirsi soli.

 IL RUGGITO: ultima domanda, ostica per quanto imprevedibile: come ti immagini Savelli fra venti anni?

ANTONIO: fra venti anni, o qualcuno in più, immagino un paese che, in una forma o nell’altra, continuerà ad esistere. Di sicuro, con meno case e più alberi. Io vorrei esserci in quel paese, magari alla Chiesulella, sui gradoni, come mio nonno, a bere un bicchiere di vino con qualche amico rientrato dalla Germania, da Torino, Firenze o Roma. Però, ammetto che più che di una previsione, si tratta di una speranza.

Parola di Antonio Tallarico, il paesano intellettuale con l’inguaribile desiderio di preservare una Savelli da custodire in cui poter ritrovare una parte di sé stessi…