DANIELE DE ROSSI – L’ADDIO DI UNA BANDIERA

Il passo di addio ai nostri colori di Daniele De Rossi è colpo quasi letale al già di per sé provato animo di chi come me è tifoso giallorosso.

Tanto più se questa decisione, per certi versi fisiologica, per molti altri inaspettata, avviene, come il più classico dei fulmini a ciel sereno, a conclusione di una delle peggiori stagioni agonistiche di squadra degli ultimi anni  ed a soli 24 mesi di distanza dal commovente ed altrettanto non ancora metabolizzato ritiro dal calcio giocato dell’altra grande bandiera di questa nostra Roma contemporanea.

Se con Totti se ne  andava un pezzo di Roma, con l’addio di De Rossi ad essere messo profondamente in crisi è il romanismo più puro.

Quello che nel giorno dell’annuncio ufficiale dell’addio ti fa sprofondare nella spiacevole sensazione di quando ti viene a mancare qualcosa, di quando ti rendi conto che quella certezza che prima ti guidava,  d’ora in avanti verrà meno, quella che ti fa ritornare in mente ogni attimo vissuto di 18 anni intensi e splendidi, di una storia d’amore senza fine che da oggi non sarà più al suo posto, quel posto dove è sempre stata.

Ad essere scosso è così l’animo più sentimentale del tifoso romanista, quello più vero e recondito, quello che ha accompagnato fin dagli albori il destino di un ragazzo biondo e predestinato, che con lui ha gioito, ingrossando la vena, ad ogni goal, quello che con lui si è sentito fiero ed orgoglioso rispetto ad una sconfitta pur sempre dietro l’angolo.

È l’animo che si mostrava impettito dinnanzi ad ogni incitamento, che si  scrutava fiero al cospetto di ogni comportamento che pur sbagliato è stato per sempre intriso di romanità autentica.

È un goal al derby, una Coppa Italia o una Supercoppa sollevata al cielo, è più di un tricolore sfumato sul più bello, è il goal al Barca, è la zampata di Marassi quando si è l’ultimo ad arrendersi. 

Quel sentire comune di un Capitano che presente lo è sempre stato anche quando c’era da definirlo futuro, quella dimensione di giocatore vero, di uomo mai banale, di sportivo talvolta debole per quanto immenso, di campione autentico, di ultras in un campo in cui una personalità da condottiero ha da sempre avuto la meglio su tutto il resta che era contorno.

Per questo e per molto altro non ci può essere oggi romanista che, scrutando nel profondo del proprio ego, non posso che definirsi disorientato da un  De Rossi che va via dalla Roma e da Roma.

È un’angoscia che seppur fortunatamente impressa nella sola dimensione calcistica diventa molto più che goliardia, ai confini dell’esistenziale direi.

Lo è per tutti quelli che De Rossi lo hanno tavolta criticato, per quelli che invece gli sono stati accanto anche nei momenti difficili, anche per quelli che talvolta ne hanno messo in discussione il rendimento in campo salvo poi venerarlo per fedeltà alla causa quanto per imprescindibilità tattica e comportamentale.

Ci sarebbe da raccontare di mille storie per cercare di imprimere quello che DDR è stato per tutti noi, romanisti di questo tempo, magari avaro di trofei ma così ricco di impagabili emozioni.

Perché Daniele è stato, quanto e come Francesco, quello che tutti noi saremmo voluti essere e non siamo mai stati, Bandiere autentiche che mai si ammaineranno, simboli ed icone di un calcio tecnicamemente sublime, espressione di un patrimonio valoriale da tramandare ben al di là di un palcoscenico calcistico che, al cospetto, appare quasi misero.

Per questo e per molto altro ancora, le motivazioni dietro l’addio non possono essere obiettivamente analizzate in questo momento che è lungi dall’essere un momento in cui a prevalere è la lucidità in ragione del sentimento.

Ciò che è certo è che con il concludersi di questa stagione che volge fin troppo in fretta al termine, finisce un’era.

Quella epopea che, sotto i colori dell’Impero, ha infiammato la crescita di ciascuno di noi, sotto l’effige di due simboli, gladiatori di un’epoca globale che poco si affeziona ai guerrieri, ma che per noi è stata il 10 ed il 16.

Una parentesi passata, in nome del tempo che scorre inesorabile e repentino, ma che solo una leggenda, ovviamente a tinte sangue ed oro, sarà in grado di custodire preziosamente, nella consapevolezza che quella Roma esistita con Totti e De Rossi, d’ora in poi, non potrà essere più tale.

In quel che è stato e irrimediabilmente mai più sarà,  è racchiusa l’incredibile carriera di un ragazzo di Ostia, campione del Mondo, il cui principale rammarico è da sempre quello di non aver potuto donare alla Roma più di una carriera ed intorno al quale, oggi, ci sentiamo tutti insieme e pur nostalgicamente romanisti fracichi…