LA GUERRA ASIMMETRICA

Belgian soldiers stand guard in front of a poster for Le Soir (The Evening) weekly news magazine showing a photograph of the Paris attack that reads, "We are at war", after security was tightened following the fatal attacks in Paris, in Brussels, Belgium, November 21, 2015. REUTERS/Francois Lenoir - RTX1V4NT

A pochi giorni dall’arresto di Salah Abdeslam, il terrorista più ricercato d’Europa, “mente” degli attentati parigini del 13 novembre scorso, un Europa che sarebbe dovuta sentirsi più sicura, si riscopre invece, ancora una volta,  inerme dinnanzi all’ennesimo atto di terrore, di matrice jihadista, che colpisce diritto al cuore il vecchio Continente.

Bruxelles come Parigi, Bruxelles più di Parigi: il titolo, che rende al meglio l’idea di quanto accaduto, spiega, in sintesi, come persino più di quanto verificatosi nella capitale transalpina, gli attentati sul territorio belga raggiungono limiti finora inesplorati.

Non tanto perché ad essere interessata è la capitale europea, non solo perché gli attentati si consumano a pochi metri di distanza dalle principali sedi istituzionali comunitarie, ma anche e soprattutto perché Bruxelles segna il definitivo “salto di qualità” di un conflitto del quale è forse il tempo che noi tutti, più o meno consapevolmente, ci si senta coinvolti.

Il 22 marzo è semplicemente una ulteriore conferma che l’Occidente e l’Europa intera sono in guerra.

Trattasi di “guerra asimmetrica”, nella quale i confini della disputa non sono circoscrivibili, gli avversari non identificabili, gli obiettivi fisici per nulla definiti.

Trattasi soprattutto di una guerra aspra e non convenzionale, che si combatte in ogni angolo del globo e nell’ambito della quale anche il luogo apparentemente più sicuro, o quello che si frequenta più abitudinariamente, può d’un tratto divenire inaspettato teatro di distruzione e morte.

La prima realtà per prepararsi al meglio a questo scenario, è farsi carico di un’idea forse fin qui sottovalutata: seppur non quantitativamente nutrito, l’esercito del Califfato è parecchio temibile e pericoloso.

Lo sottolinea la dimostrazione di forza con la quale reagisce alla cattura di un proprio “soldato”, lo confuta la capacità di autorigenerarsi, di sostenersi finanziariamente, di fare proseliti, di “reggere” il conflitto sul piano mediatico quanto sul terreno più infimo e viscido.

Lo dimostra ancor più, la facilità con la quale gli attacchi vengono programmati e portati a segno in una città già in stato di allerta da quattro giorni, in un contesto sorvegliato da mesi e per lo stesso periodo costretto a vivere in condizioni di sostanziale “coprifuoco”.

Lo certifica, infine, l’attacco a obiettivi tecnicamente ritenuti “sensibili” quali possono configurarsi un aeroporto o una stazione della metro di una grande città, attanagliati e tenuti sotto controllo (?) per un rischio attentato che poi puntualmente si verifica e rivela la debolezza del sapersi difendere da ciò che era  fin troppo prevedibile e scontato.

Il “come” fronteggiare il pericolo è comprensibilmente più facile a dirsi che a farsi.

I rimedi da porre in essere potrebbero essere molteplici, ma richiedono tuttavia scelte coraggiose, fin qui solo parzialmente messe in atto e con efficacia peraltro praticamente nulla.

È finito il tempo dei proclami e delle prese di posizioni sul piano dialettico, delle campagne di solidarietà; finanche i blitz antiterroristici in  determinati quartieri, i raid mirati in Medio-Oriente, i droni in Siria e Libia non hanno fin qui sortito gli effetti sperati e per questo vanno rivisti ed abbandonati se si vuole davvero sconfiggere il problema alla radice.

Necessita pertanto un cambiamento di prospettiva nell’affrontare questo conflitto.

Il primo quesito che la comunità internazionale deve porsi è se si vuole essere in guerra o no, se questa guerra la si vuole realmente combattere ed a quale prezzo si è disposti a farlo.

Se la risposta all’interrogativo è affermativa, la strada è in tal senso segnata.

Preso atto che colpire solo attraverso il cielo non produce effetti stabili e duraturi, è tempo di affidarsi alle modalità di ingaggio più tradizionali, da affrontare con modalità meno tecnologiche, ma più rispondenti alle esigenze di sconfiggere Isis nelle proprie roccaforti siriane, libiche ed afghane.

Naturalmente la strada della trincea ha i suoi rischi; comporta un sacrificio di vite umane non augurabile per quanto, di contro, inesorabilmente preventivabile.

Nel caso (più auspicabile) in cui non si privilegi la strategia interventista, il percorso da intraprendere è quello di un ritiro incondizionato di tutte le forze alleate dai teatri di guerra mediorientali.

Più per esigenze proprie (petrolio docet) che per benefiche volontà di democratizzazione (di questo ne resto convinto), negli ultimi anni le forze occidentali sono intervenuti in Afghanistan, Iraq, Libia ed in Siria.

I risultati di queste campagne, quasi sempre forzate più che richieste, sono stati evidentemente fallimentari.

Laddove c’erano regimi ora non c’è la democrazia.

Di contro, una stabilità seppur indotta ha lasciato il passo ad un caos devastante, in cui tribù etnicamente divergenti si combattono e la rappresentanza più organizzata, Isis appunto, ha dichiarato guerra all’Occidente intero, mettendone a soqquadro le manifestazioni più libere e ritenute erroneamente invalicabili, disseminando il terrore in territori cosparsi di stabili e splendenti periodi di pace.

Nel mentre si decide il da farsi, una partita altrettanto strategica riguarda “il controllo delle frontiere”.

Atteso che una definizione diplomatica del conflitto siriano diminuirebbe sensibilmente l’impatto del fenomeno “profughi”, chiudere tutte le frontiere, farsi carico come Europa di una problematica che non più riguardare solo taluni stati (Italia, Grecia e Turchia per citarne alcuni), rivedere i termini del trattato di Schengen, potrebbero rappresentare in tal senso una risposta istantanea, seppur drastica, a cui ricorrere nell’immediato.

Il resto è condito delle solite verità risapute: la necessità primaria di dotarsi di un sistema di intelligence europea, di isolare gli stati che sovvenzionano Isis, la rinuncia a quel mercato del petrolio illegale attraverso il quale Isis diviene più solida, il bisogno di rintracciare i flussi finanziari verso il Califfato e, infine, il non farsi travolgere dall’ondata emotiva che fa coincidere, fin troppo banalmente e scioccamente, musulmano con terrorista.

Con l’auspicio che almeno stavolta i profili facebook non siano invasi da bandiere belghe (cosa peraltro avvenuta come all’indomani dei fatti di Parigi) mentre non ho mai visto vessilli indonesiani, turchi o africani (ivoriani, egiziani e nigeriani ad esempio), umanamente vicino (come sempre) alle vittime di quest’ultima mattanza, mi auguro che l’ulteriore dispendio di sangue innocente serva da “insegnamento”.

A capire, almeno, che la guerra è su larga scala, che non la si può sostenere con mezzi che non siano coordinati, che non la può più affrontare con le strategie fin qui utilizzate.

Da molto tempo, lo spauracchio di una terza guerra mondiale incombe, pesante come un macigno, sulla civiltà mondiale.

Quel tempo, foriero di quell’angoscia e paura che non dovrebbero mai contrassegnare l’esistenza umana, è purtroppo talmente vicino da “esserci” dentro.

Bisogna prenderne atto.