IL CALIFFATO NERO

ISIS-GUERRA

Il 13 novembre 2015 passerà alla storia come uno dei giorni più atroci della storia recente della civiltà occidentale.

Orrore e sdegno sono le prime e fisiologiche reazioni all’ennesima opera di terrore perpetrata dall’integralismo islamico che agisce nel nome del “califfato nero”.

129 morti, 352 feriti, una città in stato di guerra, un intero continente assediato dalla paura e dallo sgomento, fanno sì che il pensiero del “giorno dopo” non possa che essere di incondizionata solidarietà ai familiari delle vittime e di vicinanza a chi questa tragedia l’ha drammaticamente vissuta da vicino e ne resterà eternamente segnato.

Morire mentre si prende parte ad uno spettacolo musicale, mentre si consuma la classica cena con amici al ristorante o rischiare di farlo mentre si assiste ad una partita della propria nazionale, è roba che fa venire i brividi al sol pensiero.

Una sensazione di insicurezza incontrollabile per questo ci assale; di mezzo, infatti, non c’è il solito “obiettivo sensibile” (musei, monumenti e palazzi di governo), né le solite modalità (aerei o altro), ma la quotidianità di ciascuno di noi, quella che questi attentati fanno emergere come non più assolutamente intima ed invalicabile.

Proprio perché la posta in pallio è alta come non mai, esaurita una premessa doverosamente animata da sentimenti di pietà fraterna, su quanto accaduto e sul contorno che lo riguarda necessitano riflessioni più strutturate dell’emotività contingente che caratterizza le ore successive a questa immane tragedia.

Distaccato da ogni inutile ideologia (che non serve), incurante del pericolo di essere definito buonista o filo-islamico, scevro dal qualunquismo dilagante che serpeggia diffusamente fra “i più”, credo che la questione Isis debba essere giudicata con razionalità, per quanto certi gesti di razionale abbiano ben poco.

Porsi degli interrogativi in maniera critica e documentata, approfondire i percorsi ed i fatti, giudicare in maniera imparziale la storia e gli eventi sono, in tal senso, le precauzioni di cui munirsi per orientarsi in una situazione complessa ed intricata che certo non si chiarisce con la faciloneria o con posizioni preconcette e pregiudiziali.

La prima domanda mira a definire il confine, per molti labile e quasi inesistente, fra Islam ed integralismo islamico.

Davvero crediamo che l’Islam nella sua interezza abbia una comune matrice di jiadismo?

Invitando tutti, me per primo, ad approfondire lo studio della civiltà islamica, del suo radicamento nella storia, per rispondere credo si debba analizzare tutto ciò che Islam, in primis la pressoché univoca componente religiosa fatta di dedizione e moderazione che spesso viene fatta coincidere con fanatismo, ma che è invece lontana dagli eccessi che le si vogliono forzosamente attribuire.

Per capire poi il fenomeno “Islam” nell’ambito dei confini europei, essenziale è un’occhiata ai numeri: in Europa vivono circa 60 milioni di musulmani, quasi tutti islamici; poco meno di 20 milioni abitano dentro i confini della Ue.

Se l’assonanza Islam uguale terrorismo fosse così legittima come qualcuno crede, l’Europa non sarebbe da tempo già teatro di guerra e distruzione?

O forse la realtà, invece, è che le cellule Isis delineano i contorni più estremi e pericolosi di una minoranza, seppur radicale, della comunità islamica?

Occorre poi capire cos’è realmente l’Isis, dove e perché nasce, distinguerla da “Al Queda” che è ben altra cosa, rintracciare eventuali colpe dell’Occidente nella scalata al potere degli uomini del califfato ed ultimo, non per importanza, informarsi, se possibile, sui canali che finanziano le “casse del terrore”.

Si può inoltre cercare di comprendere da chi questa organizzazione statale (di questo si tratta) si fornisca in termini di armamenti o anche approfondire le dichiarazioni di Ilary Clinton “l’Isis l’abbiamo creata noi” e di Vladimir Putin, secondo il quale molti stati dell’Occidente, anche fra quelli presenti al G-20, hanno foraggiato e continuano ad irrogare l’Isis di ingenti finanziamenti.

Approccio di natura demografica deve poi riguardare l’altra “convinzione” che pervade l’immaginario collettivo, ovvero che gli attentati siano alimentati dagli sbarchi di immigrati che riguardano da tempo le nostre coste ed il suolo europeo più in generale.

Anche in questo caso, per farsi un’idea, senza abbandonarsi a facili “salvinismi”, significativo è il dare un’occhiata alla nazionalità dei componenti dei “commando” che hanno sconquassato la Francia, venerdì scorso o anche nel recente passato (Charlie Hebdo).

Si resterà magari sorpresi nel prendere atto che coloro che hanno agito al “Bataclan”, a “Le Carillon” ai ristoranti “Petit Cambodge”, “La Belle Equipe” e “Le Comptoir Voltair” sono infatti francesi o cittadini europei di seconda e terza generazione.

Tutta gente cresciuta nei quartieri belgi ad esempio, che ha frequentato le nostre scuole, che è cittadino d’Europa e che profugo non lo è affatto, perché non ha dovuto attraversare il mare per scampare a desolanti teatri di guerra o più semplicemente perché cresciuto nel cuore del vecchio continente, a pochi km di distanza dalle sedi Ue di Bruxelles.

Proprio quella guerra che molti invocano, a gran voce, al facebookiano grido di “sterminiamoli tutti”, rappresenta il nodo cruciale della controversa storia del Medio-Oriente e delle zone “abitate” dall’Isis.

Anche a riguardo, le domande sono molteplici.

Viene anzitutto da chiedersi, la strategia interventista attuata da decenni nella regione medio-orientale, ha sin qui conseguito i presunti obiettivi prefissati dai paesi occidentali?

In nome della necessità di “esportare” modelli di governi democratici che puzzano tanto di avida ricerca di petrolio e/o diamanti condita dalla necessità di tenere in vita la propria industria bellica, gli alleati, intervenuti su più fronti, hanno sterminato il terrore con bombardamenti di per sé già incessanti e continui?

Anche i più audaci, guardando agli eventi possono ricredersi sulla efficacia di interventi poco mirati, spesso non coordinati e comunque confusionari.

Tali operazioni, infatti, hanno oggettivamente prodotto poco o nulla; anzi, se possibile, hanno peggiorato gli equilibri in una parte del pianet, instabile per definizione, in cui la madre di tutte le questioni ha le sembianze della trascurata e mai risolta “questione palestinese”.

Ci siamo detti che Saddam era il male, ma destituito il Rais, l’Iraq è oggi terra dove l’Isis conquista repentinamente territorio a scapito di decine di tribù in conflitto fra loro.

Ci siamo poi detti che Gheddafi poteva essere un pericolo per l’intera Europa, salvo poi scoprire che la caduta del regime ha di fatto spalancato le porte all’ingovernabilità di questo Stato ed ai succulenti appetiti del Califfato.

Ci siamo imposti di portare il conflitto in Siria perché il problema era Assad e stiamo man mano scoprendo come un intervento così (mal) concepito possa favorire la scalata dell’integralismo presente in quelle regioni senza comprendere, al contempo, i nemici da combattere e/o le alleanze su cui poter contare.

Se analizzate queste componenti, si ritiene che l’unica strada è comunque quella dell’intervento ad ogni costo, bisogna però abituarsi a convivere con talune disdicevoli conseguenze che l’essere in guerra porta con sé.

Perché in guerra, fatti come quelli del nero venerdì parigino debbono essere tristemente messi in conto ed anche in serie; non a caso, Parigi segue di poco l’aereo dirottato sul Sinai (224 i morti russi) e l’attentato a Beirut (41 le vittime, in gran parte musulmani).

Seguendo tale principio, non si può pretendere che i nemici dell’altro fronte reagiscano con ramoscelli di ulivi ai continui attacchi aerei subiti, né che la disputa si giochi sui binari della moderazione.

Tantomeno, si può essere sensibili ai soli morti che avvengono dalla “nostra” parte; in Siria, ogni giorno migliaia di civili (fra loro, donne e bambini) sono vittime dei raid “alleati”; oppure vogliamo credere alle “bombe intelligenti” in grado di saper selezionare gli obiettivi come certa “stampa di guerra” vuole farci intendere?

La realtà è invece che la risoluzione di questa intricata questione è molto complicata.

Il conflitto, animato da presunte contrapposizioni religiose che in realtà sono pressoché insignificanti, è invece ispirato dagli unici reali interessi che coinvolgono questo mondo globale: potere e denaro, sotto forma di territori strategici da egemonizzare e risorse naturali da accaparrarsi.

Fermo restando che anche gli più scettici devono convenire sul come l’Isis sia una creatura cresciuta male, ma fatta nascere dall’Occidente e da questi ancora oggi alimentata con armi (mica quelle in loro possesso crescono in giardino), resta l’assunto, semplice e non scontato, che solo da una definizione diplomatica del conflitto può garantire un futuro di stabilità altresì compromesso.

Dialogare e creare le basi di una forza internazionale che miri finalmente a stabilizzare la regione mediorientale attraverso una strategia mirata e coordinata di carattere finanziario e politico prima che militare: è questa l’unica strada percorrere per giungere ad una soluzione che scongiuri il versamento di altro sangue.

In questa strategia, se preminente deve essere il ruolo delle due superpotenze, Usa e Russia (speriamo che il G-20 sia servito in tal senso a qualcosa), altrettanto necessaria deve essere la definizione del ruolo dell’Iran, come l’azione di intermediazione dei paesi arabi “moderati”, ad esempio ad Arabia Saudita e Qatar, la cui posizione deve essere finalmente chiarita da elementi di ambiguità ad oggi presenti.

Se così non si fa, dovremmo gioco forza immaginarci di entrare in guerra, quella vera, che si dovrà combattere sul terreno perché gli aerei evidentemente non bastano.

In quel caso, ci sarà da misurarsi con i guerriglieri sperando che, come loro sono abili ad utilizzare il nostro amato “web” per reclutare adepti, “noi” lo saremo altrettanto ad affrontarli in battaglia.

Sempre nel caso di un conflitto allargato che io ovviamente auspico possa essere scongiurato, c’è da prendere atto che la guerra è guerra: c’è chi la combatte con aerei sofisticati, con mezzi tecnologici precisi e mirati e chi invece la combatte con mezzi più spiccioli, quali kamikaze o imprevedibili azioni di rappresaglia.

Il risultato è ahimè lo stesso: distruzione e morte che magari ci rende più sensibili quando è a noi più vicina mista ad altro sangue che sembra non scorrere solo perché da noi più lontano, ma che “sangue” lo è allo stesso modo, con tutto ciò che questo comporta in termini di sofferenza e di perdita di vite umane.