DIRITTO DI MORIRE

Mentre la discussione sulle norme in materia di eutanasia giace in Parlamento ed il dibattito, nell’opinione pubblica, si alimenta in maniera estenuante da almeno un decennio, Fabiano Antoniani, per tutti Dj Fabo, è morto alle 11.40 di un triste giorno di fine inverno, mettendo fine ad un’esistenza evidentemente caratterizzata da una sofferenza atroce ed insopportabile.

“Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”.

Il contenuto del tweet di Marco Cappato, il radicale che ha accompagnato Fabo nel suo ultimo viaggio terreno in Svizzera, per quanto semplice, è eloquente e drammatico.

È l’ultima testimonianza di una questione, interiore e soggettiva, che si ripropone puntualmente nel vivere italico, ma che è lungi dall’essere affrontata e risolta perché palesemente influenzata da elementi di becero clericalismo che stridono con la necessaria laicità di un Paese civile.

Una questione irrisolta, tipicamente italiana appunto, che, oggi, ha le sembianze infermi di un giovane Dj milanese costretto a vivere da tetraplegico e cieco in seguito ad un incidente stradale, ma che solo ieri era Manuela Englaro, Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, solo per citare i casi più “famosi”.

Che è soprattutto il calvario di decine di famiglie, impossibilitate ad esercitare un libero arbitrio, spettatrici impotenti dinnanzi ad uno strazio insopportabile e prolungato.

Lungo il solco di cotanta interiorità, il sentiero dentro il quale ci si muove è naturalmente stretto e tortuoso; si inerpica dentro percorsi che sono necessariamente intimi e personali, privati e profondi.

Pur tuttavia, elementi inconfutabili, nella storia di Dj Fabo come delle altre storie accomunate da un destino così avverso e tragico, sono presenti e si intrecciano inevitabilmente fra loro.

Il primo riguarda una considerazione semplice che non stride con l’impronta essenzialmente cattolica del nostro incedere quotidiano: non si può scegliere quando nascere, ma si deve poter scegliere di morire, di mettere fine ad un’esistenza non più tale, caratterizzata da oggettivi elementi di infermità che poco o niente hanno di vitale.

Il secondo è che invece i contorni del fenomeno impongono una discussione istituzionale seria e realmente risolutiva.

Da marzo 2015, l’Associazione Coscioni ha permesso a 233 persone di mettersi in contatto con i centri elvetici per il suicidio assistito.

Questo avviene perché, nonostante ci siano sei proposte di legge che dovrebbero confluire in un unico testo, nel Parlamento italiano tutto procede maledettamente a rilento.

Va a rilento la legge sull’eutanasia, va a rilento la disciplina riguardante il “Biotestamento” che, tra ritardi e rinvii dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, essere al centro dei lavori della Camera nei prossimi giorni.

Nella speranza che le istituzioni facciano le istituzioni su una materia da “normare” con caratteri di urgenza e di universalità più che tornare maledettamente attuale quando ci si interessa del malcapitato di turno, il triste epilogo della vita di Dj Fabo lascia sgomenti ed attoniti.

Senza cadere nella retorica, rischio presente quando ci sia accosta a tali argomenti, il testo dell’appello inviato, poco tempo fa, dallo stesso Dj Fabo al Presidente Mattarella racchiude, più di qualsiasi altro commento, l’essenza di questa storia, simile a tutte le altre che sfiorano il labile confine fra la vita e la morte.

 “Da più di 2 anni sono bloccato a letto immerso in una notte senza fine. Vorrei poter scegliere di morire, senza soffrire”.

Di fronte a questa frase, così drammatica ed angosciosa, così come dinnanzi alla scelta, comunque coraggiosa, di questo giovane che ha visto la propria vita sconvolta da un evento comunemente tragico e fatale, ciascuno di noi ha la libertà di esprimere la propria reazione, di pietà o di condanna, di condivisione o di critica, di approvazione o di dissenso.

Auspicabilmente scevra da qualsivoglia retaggio, l’opinione di ognuno, specie su una questione così maledettamente delicata e borderline, è comunque rispettabile anche se non completamente condivisa.

Scorre lungo un principio indissolubile, la libertà di pensiero, che vale su tutto, tanto più su aspetti che riguardano la vita umana in senso stretto.

La stessa libertà non è però concessa ad un Paese, inteso nel suo senso più ampio e laicamente riconoscibile, che deve poter accordare ai propri figli, cittadini che dir si voglia, la facoltà, seppur estrema, di determinare il proprio destino, di decidere consapevolmente di affrontare un percorso già di per sé improbo e quasi proibitivo.

Trattasi comunque del riconoscimento di un diritto, seppur di un diritto di morire.