CIAO PAESE!!!

Un virtuale “ciao paese” su facebook, nostalgico quanto la cara “valigia di cartone”,  l’aereo o l’autobus in luogo della dimenticata traversata in “cuccetta”, un viaggio consapevole anziché la classica carta della disperazione.

Salutata la terra natia in cerca  di miglior fortune altrove, Luca Lo Licco, giovane ragazzo di 23 anni, ha di recente lasciato Savelli, suo paese di origine, ed è emigrato per motivi di lavoro.

Solo ultimo in ordine di tempo, Luca, come i tanti, troppi, giovani di casa nostra, che, ancora oggi, continuano ad emigrare anche in tempo di globalizzazione, ripropongono in chiave attuale la drammaticità di un fenomeno sociale che, a queste latitudini, pesa quanto un macigno e segna indelebilmente il futuro (?) di un paese e di un territorio.

Ho avuto modo di esternare direttamente a Luca la contentezza per l’opportunità che va a ricercarsi.

L’ho fatto con lui, come l’ho fatto, prima ancora, con mio fratello e con ragazzi quali Antonio, Salvatore, Pino e Gino Paolo che ho visto crescere e che mi rincuora saper protagonisti di un futuro che, seppur a chilometri di distanza, possa essere all’altezza dei loro sogni.

Proprio ciò che sta alla base del mio compiacimento, è paradossalmente anche la causa di sentimenti contrari, a metà fra la frustrazione ed il rammarico, la rivalsa e la delusione.

Se è vero infatti che la Savelli di oggi, come peraltro quella degli ultimi decenni, non è per niente generosa con chi si vuole garantire aspettative e successo, con chi, animato da qualità eccelse, vuole assicurarsi una possibilità, vero è che proprio questa lapalissiana evidenza rende tutto tremendamente triste e disarmante.

Come tutti i savellesi della mia generazione ho convissuto da sempre con l’imperterrito avanzare dell’emigrazione.

Lambito da quella verso l’Argentina che riguardava solo i nostri antenati, ho avuto contatto più diretto con quella nel nord industrializzato, del boom economico e delle fabbriche, e sono stato spettatore consapevole di quella, più recente, che per studio o lavoro qualificato conduce verso il centro-nord della penisola.

Nel vivere paesano, negli aneddoti, nella quotidianità più recondita, l’emigrazione c’è sempre.
Coinvolge parenti e amici, ci allontana dagli affetti più cari, ci distanzia da pezzi di vita, separa famiglie, condiziona storie personali, orienta percorsi umani e professionali.

Essa si muove su un piano caratterizzato da un turbine di emozioni, molto spesso contrastanti.

Se tuttavia, fino a qualche tempo fa, la speranza che un miracolo avrebbe potuto restituire alla propria terra i figli emigrati, la sensazione odierna è senza dubbio improntata allo sconforto.

Un giovane savellese che vuole costruirsi un proprio percorso di vita non può immaginarselo nel paese d’origine; lo poteva forse sognare l’altro ieri, lo avrebbe potuto desiderare ieri, ma non vi può in alcun modo ambire oggi.

Lungi da me essere pessimista, lungi da me abbandonarmi in analisi socio-politiche (in tempi non sospetti dissi che, mentre si sopravviveva di espedienti, i figli partivano), lungi da me voler stabilire contorni a tematiche così complesse; di fronte a quella che è la situazione, l’unica cosa da fare, altro non è che porsi domande, alle quali magari nessuno potrà o vorrà dare mai risposte.

È davvero proibitivo pensare ad un paese capace di attrezzarsi per garantirsi un futuro?

E ancora, dinnanzi a questo stato di cose, non esiste davvero altra possibilità se non rassegnarsi, subire passivamente, anestetizzarsi, accontentarsi dell’oggi senza pensare ci debba essere un domani?

Quanti altri “ciao paese” non cantati da Nicola Manfredi, ma sussurrati da giovani alla ricerca di un’esistenza dignitosa, dovranno udirsi, prima che ci si attrezzi per correre ai ripari?

Esisterà, o no, un’alternativa a questo oblio?