UN PAREGGIO ALL’ITALIANA

Ci sono i vincitori e ci sono i vinti, ma, al momento, non c’è una coalizione maggioritaria che possa definirsi tale ed in grado di formare il nuovo Governo.

Epilogo, quasi scontato, di una legge elettorale “architettata” per favorire l’instabilità, il responso del voto di queste  “elezioni politiche 2018” è un misto di elementi per molti versi contrastanti, ma comunque incontrovertibili.

Quella del 4 marzo appena trascorso passa anzitutto alla storia come la competizione elettorale che segna il definitivo passaggio dalla politica tradizionale alla politica cosiddetta “liquida”: diffusione capillare sulla rete che fa il paio ad un’assenza pressoché totale dalle piazze, pochi manifesti e slogan che viaggiano su tweet e non su carta, valorizzazione ossessiva di pagine e blog, personali e non.   

Primario dato di carattere politico è invece il venir meno della tradizionale contrapposizione fra centrodestra e centrosinistra.

Il cosiddetto terzo polo, frangia elettorale impropriamente qualificata quale populista e qualunquista, è infatti il vero vincitore di questa tornata elettorale che anche sotto questo punto di vista segna una svolta epocale nello scacchiere politico nazionale.

Alla voce “vincitori” va iscritto anzitutto il Movimento Cinque Stelle, prima forza politica del Paese ed autentico trionfatore designato da un voto dalle proporzioni immaginabili, ma comunque considerevoli, che consentirebbe di delineare i tratti di un Governo pentastellato, se non fosse per un Rosatellum costruito quasi su misura per arginare le ambizioni di Governo di Di Maio e company.

Quasi elementare spiegare le ragioni del plebiscito del Movimento: la sonora bocciatura di una classe dirigente che, da destra a sinistra, si è rivelata autoreferenziale, incapace di ascoltare le istanze delle classi svantaggiate, inconcludente nel dare risposte, arrogante nell’arroccarsi dentro una fortezza dalla sembianze di una casta sempre meno competente e dai privilegi inalterati.

Sconvolgente, sul piano strettamente politico quanto su quello sociologico, è il dato del voto al Sud.

Mentre i soliti analisti da “strapazzo”, intenti più a ricercare strumentalizzazioni che ragioni intrinseche alle espressioni di voto, lo addebitano infatti al paventato bisogno di assistenzialismo travestito da reddito di cittadinanza, la realtà è ben diversa.

Il Mezzogiorno vota Cinquestelle per un desiderio di ribellione, per un bisogno quasi vitale di sconvolgere assetti precostituiti e fin troppo duraturi, perché è evidentemente stanco di un’Italia a due velocità, perché è oggettivamente stufo di essere considerato la ruota di scorta del Paese, perché è indubbiamente esasperato dall’essere destinatario di politiche improduttive, perché è sicuramente desideroso di essere al centro di un’agenda di Governo che lo veda finalmente quale area da valorizzare e non da abbandonare al proprio destino.

Sono sentimenti comuni a molte fasce di questa Italia, in cui i giovani vedono il Movimento quale unica forza capace di dar loro ascolto (non può essere altrimenti) ed in cui pezzi interi di Paese affidano proprio ai seguaci di un Grillo sempre più defilato (carta vincente) esigenze di rappresentanza disattese da altre parti.

Tratti evidenti che identificano anche l’inarrestabile ascesa di Matteo Salvini, a proposito di web, il secondo politico più seguito in Europa, e di una Lega passata in un batter di baleno dal 4 al 18%.

Sempre meno ancorato a dimensioni campanilistiche e sempre più forza di riferimento del centrodestra, sempre disponibile a cavalcare “tigri” (vedi immigrati) così come ad assumere insospettabili redini di Governo, il Carroccio 2.0 veleggia sotto la spinta di un condottiero capace di farla spadroneggiare al Nord (comprensibile) quanto di farle piazzare radici al Sud (insospettabile).

Quelle stesse radici che si sono evidentemente dissolte come neve al sole, accompagnate da un calo di consensi dalle proporzioni epocali, per i “nobili” sconfitti di queste elezioni politiche 2018: Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, due facce diverse quanto per molti aspetti simili di una stessa medaglia ed espressione di una politica che evidentemente non fa più presa, neanche nella sua essenza comunicativa, per ragioni sostanzialmente differenti.

Se per il Cavaliere, il declino rappresenta  infatti il fisiologico epilogo di un’epopea che, a fasi alterne, si è prolungata per un lustro, oltre che l’espressione di carenze che fanno il paio con un’età che non permette le miracolose rimonte dei tempi migliori, il discorso su Renzi ed il Partito Democratico meriterebbe approfondimenti che, per motivi di sintesi, non è possibile esplicitare in toto.

Anche nel caso del PD, il dato di partenza è che il volere degli elettori certifica, inconfutabilmente, una condotta a dir poco fallimentare.

Ci sarebbe stato da predisporre una conferenza stampa e dimettersi, ad ogni livello, già da quando lo spoglio era in corso.

Il discorso non vale, invece, per un Partito, che perde praticamente ovunque, fatta eccezione per il solo Zingaretti, ma che nelle ore immediate successive al voto, continua a restare avulso dalla realtà, si cela dietro equilibrismi dialettici insostenibili (la conferenza di Renzi fa scuola in questo senso) e non si accorge che è appena iniziato un periodo di profondo ed inesorabile travaglio che non si sa bene se e quando terminerà.

Periodo comunque intenso, ma tutto sommato meno tormentato, riguarderà anche, di qui in avanti, l’incedere del Capo dello Stato chiamato, non senza difficoltà, ad interpretare il senso di un voto che, benché non lasci spazio ad interpretazioni, va ora tradotto in numeri parlamentari che richiedono, di contro, mediazioni e dialoghi anche forzati.

Far sì che l’incertezza non prevalga sul disperato bisogno di governabilità che l’Italia ha manifestato attraverso l’espressione del corpo elettorale, è la sfida che attende adesso tutti gli attori in campo.

La stagione che si inerpica inevitabilmente lungo un tragitto che non lascia spazio a manovre di Palazzo (le urne le hanno definitivamente bocciate), che richiede per l’appunto capacità di dialogo anche tra forze potenzialmente distanti, ma che non può non tenere conto di un messaggio chiaro ed inequivocabile: è finito il tempo del politichese, è ora che inizi l’ora del “fare”.