ITALIA – QUESTO IL PAESE CHE VA ALLE URNE

Mentre il fatidico appuntamento con il 4 marzo si avvicina repentinamente, l’approssimarsi della chiamata alle urne per milioni di elettori (astensione permettendo) non sembra chiarire il quadro di una situazione politica evidentemente a tinte fosche.

Abbandonato il tempo in cui chi, era di sinistra e/o di destra rimaneva tendenzialmente tale, un momento storico nel quale il destino del voto scaturiva dal comportamento di pochi “indecisi” che orientavano il risultato ed in cui i governi si facevano a colpi di “pentapartito”, lo scenario odierno, al contrario di quelle che erano le attese per una rivoluzione di fatto mai avvenuta, non è degno di etichettature e facili previsioni. Tutt’altro.

Il passaggio dalla tanto bistrattata Prima Repubblica ad una fase nuova, tanto sul piano elettivo che della governabilità, avrebbe dovuto garantire di sconfinare oltre le contraddizioni di un’epoca intera (praticamente tutta la fase repubblicana) non certo da rimpiangere, non fosse altro che per gli sfaceli che ha portato con sé.

A distanza di decenni, questo transito non è completato; anzi, a dire il vero, l’attuale fase del Paese sembra aver ereditato in toto vezzi e storture della Repubblica più antica, quella degli scandali, degli assistenzialismi e delle contraddizioni che esplodono a colpi di “moderatismo”, come se il tempo non fosse mai trascorso.

Un percorso evolutivo solo pavoneggiato e mai intrapreso evidenzia la circostanza, scontata per quanto verosimile, che il problema possa diagnosticarsi quale sostanzialmente congenito, con radici profonde e ben ancorate ad un malcostume diffuso su larga scala che pervade la penisola intera.

Una specie di “malformazione” ereditaria che, prima che nel governo della cosa pubblica, si riproduce nell’approccio al voto, inteso quale opportunità di poter/dover valutare la schiera di rappresentanti, di partiti e di movimenti che si presentano al cospetto degli elettori senza idee e programmi alcuni.

Lungo questo solco, anche questa campagna elettorale che va a concludersi, si chiude, per utilizzare un gergo tendenzialmente calcistico, con il classico “nulla di fatto”.

Un risultato che giunge al termine di un match noioso, che non ha regalato grossi sussulti, che non ha brillato per la qualità del dibattito messa in risalto dalle forze in campo, incentratosi, per lo più, su di un’onda mediatica basata su promesse, spesso irrealizzabili e riesumate, e su slogan quasi sempre privi di contenuti e di fattibilità.

La conclusione è presto detta: anche stavolta, gli italiani chi si recheranno alle urne (io fra questi) saranno nuovamente costretti a “turarsi il naso” ed optare per il “meno peggio” (anche in tal caso io fra questi) magari dopo averlo individuato (cosa non affatto semplice).

D’altronde, come reagire, al desolante teatrino della politica messo in campo in questi ultimi frangenti?

Si strumentalizza il tema degli immigrati senza che si discuta di quella “questione meridionale” che, se affrontata, garantirebbe invece prosperità e sviluppo a tutto il Paese, a tutti noi “terroni” (emigrati e non) e, perché no, a molti migranti in cerca di fortuna.

Si sparla (?) di Legge Fornero (molto spesso a chiederne l’abolizione sono coloro che l’hanno votata in Parlamento) senza che si affrontino strutturalmente problemi quali l’evasione fiscale e la criminalità organizzata che, se risolti, consentirebbero di recuperare una quantità di risorse tale da farci a lavorare tutti e di andare in pensione quando lo si vuole.

Si lanciano slogan sull’abolizione delle tasse, ma c’è un disegno di legge sulla corruzione che giace in “segrete stanze” con buona pace dei milioni di euro che si potrebbero recuperare: altro che “no-tax area”, si tratterebbe di tasse al minimo praticamente per tutti.

Si paventano “sensibilità” sui diritti civili, ma lo ius soli è nel frattempo divenuto un miraggio.

Qualcuno si pregia del “job acts”, ma in realtà la disoccupazione, specie quella giovanile, raggiunge percentuali da paese non civile.

Si riempiono discorsi trattando di “buona scuola”, ma le scuole italiane minacciano di cadere a pezzi con un pericolo incolumità che viaggia di pari passo ad un’offerta formativa sempre più penalizzata e penalizzante con buona pace di cervelli sempre più in fuga.

Si sbandiera la sicurezza, solo per far accrescere la paura, ma poi le forze dell’ordine sono a corto di benzina.

Si parla di diminuzione della spesa pubblica, ma nessuno intende affrontare realmente le contraddizioni della PA, far emergere realmente al suo interno dinamiche di merito e di efficienza (che ci sono ma spariscono a colpi di malaffare), delineare la strada per giungere a risparmi effettivi e stabili.

Si snocciolano investimenti, si costruiscono “ponti”, ma nessuno ha mai realmente presentato un piano che fronteggi il dilagante e pericolosissimo fenomeno del dissesto idrogeologico.

Si sponsorizza un’identità nazionale, ma a trionfare sono i pregiudizi ed i campanilismi.

In una Nazione come questa, in cui le dicotomie evidenti sono molteplici e quelle citate sono solo estrapolate da un elenco che potrebbe estendersi ben oltre, recarsi al voto resta, sempre e comunque, un dovere, un esercizio di un diritto autentico che è a base del vivere democratico.

Farlo, chiudendosi gli occhi, turandosi il naso, senza la piena convinzione di quel che si andrà a fare, è invece la sensazione comune che si respira, quella più diffusa seppur non evidenziata da alcun sondaggio.

Il giorno dopo il 4 marzo sarà un altro giorno; che si possa trattare di un giorno migliore, beh, questo è davvero chiedere troppo.