OVVIAMENTE NO

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Manca poco meno di una settimana (per fortuna) al “Referendum Day” ed al termine di una delle più estenuanti campagne elettorali del Dopoguerra (vai a capire il perché).

Con la trasparenza di chi gioca come sempre a carte scoperte, nel dichiarare il mio voto, non posso che esprimere un deciso, convinto, chiaro, netto ed ovvio “NO”.

Ho assistito a molti dibattiti sulla contrapposizione fra i sostenitori dei due schieramenti; a dire il vero ne sarebbe bastata anche la metà, visto che la discussione, piuttosto faziosa, ha contrariato un po’ tutti, me compreso.

Senza peccare di saccenteria o voler mettere in dubbio l’altrui coscienza del voto (esercizio abusato degli uni contro gli altri), senza nascondermi del “perché” il mio orientamento vada in questa direzione, posso solo concludere che il mio è un voto consapevole, oggetto di approfondimenti e frutto di convincimenti diffusi. Tanto basta per i fini a cui è deputato.

Di ragioni del “NO” ne avrei infatti da elencare a decine; alcune si muovono nel campo dei tecnicismi, altre in quello della politica in senso stretto, altre ancora nel campo della sensazione, valore talvolta supremo a cui affidarsi senza tentennamenti di sorta.

Il mio è anzitutto un rifiuto ad un concetto di cambiamento fine a se stesso.

Quel cambiamento professato, nella forma più che nella sostanza, da un “rottamatore” che rottamatore non è, in nome di una logica personalistica fin troppo spavalda e sulla scorta di un “ghe pensi mi” che produce autentici mostri (job acts, Buona scuola, riforma Madia solo alcuni esempi), delineando i contorni di un “fare” che non significa affatto “far bene”.

Ritornando al referendum, il mio è un NO che dice che è meglio la Costituzione attuale rispetto ad una Carta rivista in modo così confuso e contradditorio dal Governo e dalla sua maggioranza.

È un NO ad una riforma costituzionale voluta da una legislatura eletta con una legge dichiarata essa stessa incostituzionale (giusto il 4 dicembre 2013).

È un NO ad un’avventura riformatrice che avrebbe dovuto evitare una visione così estesa ed essere più cauta e misurata nel trattare l’argomento.

È un NO che prende le distanze dal voler pronunciarsi su un unico quesito, quando le questioni in campo si sarebbero potuto affrontare separatamente, distinguendo, tra le altre, tematiche sulle quali la sensibilità è pressoché unanime (vedi abolizione del Cnel ad esempio).

Il NO è inoltre un deciso ripudio ad una riforma del titolo V che costituisce, di fatto, una pericolosa involuzione rispetto all’assetto regionalistico voluto dai nostri padri costituenti.

È parimenti assoluta contrarietà alla concezione di un Senato non elettivo, scelto dai politici in Consiglio regionale (che scelgono anche i Sindaci), con la presenza di un 5% di nominati dal Presidente della Repubblica; di un Senato che, in altri termini, non è né federale né tantomeno di garanzia, di un Senato che non viene abolito (ovviamente) e si va a configurare come un “parcheggio di lusso” per personaggi in cerca di gloria e di immunità.

Il NO è anche un disaccordo ad una riduzione dei costi paventata ma non significativa, frutto più di una mera propaganda di Governo che di una reale volontà di rivedere i meccanismi parlamentari secondo criteri di efficienza ed economicità (il Senato rimane e costerà il 90% dell’attuale).

Come scontato è il NO al tentativo di instaurare una visione centralistica dello Stato e farlo passare come uno snellimento dell’iter legislativo.

In un Parlamento che si muove velocemente quando deve approvare alcune leggi (Legge Fornero e Boccadutri su tutti) e, di contro, rimane immobile quando è chiamato a decidere su taluni mali atavici del vivere italico (corruzione su tutti), il problema non è il bicameralismo perfetto, ma una rappresentanza parlamentare parecchio lontana dalle reali esigenze di questo Paese.

Né può condurre ad una espressione diversa dal NO, il tentativo sostanziale di delegittimare alcuni contro pesi (Corte Costituzionale) del nostro arco istituzionale nel segno di una stabilità, anche questa più presunta che reale, che rischia di assurgere a monopolio di un Partito o di un leader.

Ma al di là dei tecnicismi, ce ne sarebbero molti altri da discutere (combinato con la legge elettorale, rivisitazione dei numeri per le proposte di iniziativa popolare, ecc.) il mio NO, oltre che agli aspetti fin qui esaminati, si fonda sull’assoluta contrarietà alla “visione” renziana.

Lungi da me personalizzare il referendum; ma se questo voto può tradursi anche in un mezzo per esprimere un dissenso verso una condotta governativa così lontana dalla “terraferma”, perché non approfittarne?

In fondo, in preda ad un delirio di onnipotenza rivelatosi poi sconsiderato, è stato proprio “Sua Maestà” a volere che l’appuntamento referendario si trasformasse in un’espressione di voto sul suo operato.

Motivo per cui, se il NO, oltre che esprimere dissenso per gran parte dei temi che lo riguardano, potesse servire a dare il benservito ad una logica di Governo talmente ancorata ai poteri forti da non sembrare nuova neanche nella sua veste anagrafica, non resterebbe che cogliere tale opportunità.

Anche perché il domani, più che per gli scenari apocalittici paventati dopo la bocciatura di questa riforma, potrebbe rivelarsi presumibilmente migliore del contesto attuale.

Che che ne pensino i mercati (strano che lo spread ritorni ad impennarsi a pochi giorni dal voto), che che ne dica il pensiero governativo dell’uomo solo al comando contro il quale questo referendum serve ulteriormente a prendere le distanze.